Negli anni Cinquanta del XX secolo, la ripresa economica postbellica si fonda sulla produzione industriale che finisce col sostituire quella tradizionale, legata alla agricoltura. Attratta dalla prospettiva di un salario certo e continuativo, gran parte della popolazione rurale abbandona la collina e la montagna inurbandosi nei centri industriali.
L’abbandono delle aree coltivate o adibite a pascolo consente lo sviluppo di una vegetazione spontanea che prende il sopravvento sugli ecosistemi artificiali evolvendo verso una struttura particolarmente stabile qual è il bosco: ciò porta all’incremento numerico di diverse specie di ungulati che si diffondono ampiamente lungo la fascia prealpina e negli Appennini.
Quando la fauna ungulata diventa una risorsa, sia sul piano venatorio che culturale, per non correre il rischio di perderla – come la storia insegna – si cerca di “assestarla” razionalmente.
Diverse amministrazioni provinciali, l’INFS, l’UNCZA – che nasce nel 1964 – tendono a sensibilizzare l’utenza venatoria sulla necessità di applicare anche alla realtà italiana i modelli di gestione del territorio e della fauna collaudati da tempo nei Paesi dell’Europa centrale. La cultura venatoria nazionale tende a riappropriarsi della propria matrice rurale che vede nel selvatico prelevato – secondo opportune modalità – la ricompensa del lavoro svolto sul territorio; si diffonde la prassi di un prelievo mirato e non più casuale.
Nella seconda metà degli anni Settanta, fanno la loro comparsa in Italia alcune razze di cani in grado di entrare in azione sugli ungulati quando il cacciatore fallisce nel piazzare il colpo “perfetto”. Queste razze sono parte integrante del prelievo faunistico inserito in un contesto gestionale . Fra di esse sono presenti l’annoveriano (HS) e il bavarese (BGS): i cani da traccia (Schweisshunde).
La recente introduzione di una forma di prelievo che conserva la consistenza numerica delle popolazioni dei selvatici, sempre considerati in stretto equilibrio con l’ambiente nel quale si sviluppano, è, in realtà, il ritorno a una prassi nota e applicata in Italia per tutto il Medioevo.
È probabile che, qualora si manifestino determinate condizioni culturali e ambientali, il prelievo venatorio risulti essere di tipo conservativo nei confronti delle popolazioni degli ungulati, sia per mantenere nel tempo lo sfruttamento della risorsa sia perché la caccia è esercitata in forma rituale da una esigua minoranza. Nel Medioevo, tali condizioni sono rappresentate dalla presenza di vasti ecosistemi idonei allo sviluppo degli ungulati; dal concetto che la fauna appartiene al proprietario del fondo e che il diritto di cacciarla sia un privilegio riservato a pochi (aristocrazia, alta borghesia, prelati); che gli ungulati rappresentino un valore sacrale quanto economico.
Non è casuale che fra le prime notizie documentate di un cane da recupero, le troviamo nel Liber ruralium commodorum (Libro sulle risorse rurali), steso verso il 1304 da un contemporaneo di Dante: Pier de’ Crescenzi. Il testo, elemento di riferimento per la cultura europea del tempo, considera la gestione dei fondi agricoli e forestali in una ottica di rendita globale e, quindi, il X libro è dedicato alle risorse faunistiche e alle relative tecniche di caccia.
La citazione relativa al cane da recupero è sintetica ed esemplificativa:
Item capiuntur cervi cum ab homine vulnerati sagitta vel pilo fugiunt, et parvulus catulus ad hoc instructus per viam sanguinis exeuntis ipsum sequitur, donec cervus semivivus vel mortus invenitur
Lib. X, Cap. XXIX = “Nello stesso modo (in precedenza è stato trattato il lavoro su cinghiale) si prendono i cervi quando fuggono dopo essere stati feriti dall’uomo con le frecce o con la lancia; c’è un cane appositamente addestrato che segue la traccia del sangue che fuoriesce fino a trovare il cervo, morto o gravemente ferito”.
Il Liber, sia come manoscritto che come testo a stampa – la prima edizione è quella di Augsburg, in Germania, del 1471 – è ampiamente diffuso in tutt’Europa. Degli oltre 130 manoscritti noti, 18 sono conservati in Francia, patria della caccia a stracca, e altri ancora nei Paesi della “mitteleuropa”: 7 in Germania, 5 a Praga, 1 in Danimarca, 2 in Austria, 1 in Svizzera. Non si è lontani dalla verità, sostenendo che il Liber, scritto da un autore di indiscussa competenza e autorevolezza, abbia contribuito ampiamente alla messa a punto, sul piano teorico e pratico, del concetto di uso razionale dell’ambiente; di un prelievo faunistico di tipo conservativo che richiede sia l’uso del limiere – per poter cacciare “quel particolare” capo – che quello di un cane in grado di recuperare gli ungulati feriti.
Venendo meno in Italia le condizioni sociopolitiche ed economiche che permettono di mantenere un simile atteggiamento nei confronti del territorio e della fauna, gli ungulati si riducono numericamente fino a rischiare l’estinzione; il limiere è impiegato sempre di meno e il cane da recupero scompare. La nostra cultura venatoria perde ogni memoria di quegli antichi valori.
La recente introduzione del cane da traccia in Italia ha trovato spazio e sufficiente comprensione presso l’Ente Nazionale della Cinofilia Italiana che ha provveduto alla formazione degli esperti giudici e all’approvazione dei regolamenti per le prove di lavoro su traccia articifiale e per il brevetto su quella naturale.
Pur non disconoscendo affatto il lavoro svolto dall’E.C.I. nel campo cinotecnico, è da ritenersi del tutto giustificato – seguendo quelle che oggi si definiscono come le teorie alternative del soggetto – non pensare e agire più in termini di unicità e unanimità – che spesso si traduce in un vero e proprio monopolio di obiettivi e metodi – ma in termini di pluralità e di diversità.
C’è l’opportunità di lavorare in sinergia fra tutti i soggetti presenti nel Paese – ciascuno fornito della propria autonomia e della propria dignità – interessati a valorizzare e diffondere le razze HS e/o BGS.
Queste sono le motivazioni di fondo che hanno portato alla nascita del Club Italiano del Segugio Bavarese (2012) e dello Schweisshunde Club, nel 2015. Nello specifico, lo Schweisshunde Club si presenta come il continuatore del rapporto, ormai ventennale, fra la realtà italiana del cane da traccia e l’ISHV, sodalizio internazionale sorto per mediare e coordinare gli obiettivi e i metodi di selezione fra i Paesi che a esso fanno capo. Di tale contesto, è bene precisare che lo Schweisshunde Club recepisce lo spirito – irrinunciabile per una cinotecnia seriamente impostata – ma non necessariamente la forma in quanto i previsti controlli morfo-funzionali verranno stabiliti in piena autonomia.
Gli obiettivi sono quelli di migliorare le razze da traccia attraverso una selezione impostata sulla correlazione fra struttura e funzione inserita in un contesto genetico che tenga conto della presenza dei medesimi caratteri negli ascendenti e della capacità di trasmetterli alla discendenza.
La selezione dovrà essere impostata su di una significativa riduzione delle anomalie ereditarie; sull’aderenza al tipo morfologico in quanto substrato fisico della funzione; sulla funzione che costituisce il motivo stesso per cui una razza è stata creata e ne giustifica l’esistenza. Sul piano funzionale, verrà attribuita la necessaria importanza al lavoro svolto sia sulla traccia artificiale che su quella naturale.
Il lavoro su traccia artificiale costituisce un modello sintetico ma significativo delle condizioni che si possono verificare durante un recupero: esse mettono in luce le qualità naturali dei soggetti controllati; l’adesione al percorso; metodo; iniziativa; collegamento, ecc. Il controllo su traccia artificiale si basa sul principio della valutazione pubblica e oggettiva, svolta con precisione lungo un determinato percorso né va dimenticato che chi esegue il controllo ha dato prova di saper condurre; è passato attraverso un preciso iter formativo superandone gli esami finali. Rifiutando tale principio non resta che una interpretazione del lavoro privata, soggettiva e approssimata. Le razze da caccia non selezionate attraverso le prove di lavoro ma solamente attraverso il loro uso empirico – come dimostra oltre un secolo di cinotecnia – non hanno mai evidenziato significativi progressi sul piano della qualità: per l’eterogeneità degli obiettivi; la scarsa importanza attribuita alla precisione del lavoro, verso le attitudini all’apprendimento e all’addestrabilità; la soggettività del giudizio.
Le informazioni necessarie per indirizzare l’allevamento vanno attinte da una valutazione morfologica precisa; dal controllo del lavoro svolto sulla traccia artificiale e su quella naturale (attestato per valutare la determinazione e le emissioni vocali lungo la seguita) effettuato da personale opportunamente formato.
La prassi del recupero – non diversamente dalla caccia per la selezione del cane da ferma – può fornire indicazioni complementari alle linee guida dell’allevamento in quanto, sostanzialmente, attività individuale che si sottrae a una valutazione oggettiva.
Gli obiettivi messi in campo dallo Schweisshunde Club e illustrati a grandi linee, si potranno conseguire solo attraverso la collaborazione concreta dei conduttori che hanno creduto nelle possibilità offerte dalla costituzione di questo nuovo soggetto. La volontà è quella di collaborare con i Paesi membri dell’ISHV per il miglioramento delle qualità naturali delle razze da traccia; di riappropriarci delle nostre radici culturali che hanno permesso la formulazione dei concetti di gestione globale del territorio e hanno portato alla formazione del cane da recupero.
Nulla di più ma neppure nulla di meno.
Buona traccia!